“Se vai a ballare hai tutto il diritto di ubriacarti ma evita di ubriacarti e perdere i sensi, così eviti determinate problematiche…perchè prima o poi il lupo lo trovi”. Come dire che la povera orsa Amarena è responsabile della sua morte perché se non fosse uscita di notte da sola fuori dal bosco…non avrebbe incontrato il cacciatore.
Tutti a parlare di questa frase (sicuramente sbrigativa e poco utile a risolvere un reato grave quanto lo strupro) o della castrazione chimica subito proposta dalla Lega per i responsabili degli stupri (un delirio che ignora le radici dello stupro, reato basato su radici culturali).
Così si perde di vita il vero problema che rende difficile perseguire questo reato: le incongruenze “ossia la mancanza di legami coerenti fra elementi che dovrebbero succedersi o connettersi in forma logica”. Le incongruenze sono nella vita quotidiana , nel sociale, nell’ambito dei diritti acquisiti che dovrebbero tutelare la vita delle donne in particolare.
Descrivere la gravità di questo reato, individuare le incrongruenze quotidiane e comunicative che lo alimentano, e sconfiggerle, è nostro dovere. Ne parleremo, ancora in modo più approfondito mentre in questo articolo, ci concentreremo sul reato in sè, lo STUPRO.
Qualcun’altro ha scritto che le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto. Vero, ma attente al lupo!
Due casi iconici
L’agente immobiliare Omar Confalonieri (La Stampa 4/5/2023) droga un marito e una moglie e in seguito, stupra la moglie dopo averli accompagnati a casa. La vicenda è semplice, lui con negozio lussuoso in via Monte Napoleone a Milano, riceve due vicini per trattare l’acquisto di un box. Concluso l’affare offre loro un aperitivo dove mette nei bicchieri delle gocce di un qualche farmaco che contiene benzodiazepine. Poi, malfermi sule gambe per l’effetto della droga, gentilmente si presta ad accompagnarli a casa. Entrano, il marito si accascia sul divano e lui stupra la moglie.
Denunciato viene condannato a 6 anni e 4 mesi, ma in Appello avrà uno sconto di 2 anni, a seguito del concordato introdotto dalla ministra Cartabia qualora si rinunci al terzo grado. Non è il patteggiamento, ma un espediente giuridico con uguale risultato che non riguarda più la esclusione dei reati contro la persona, (mantenimento in servitù o schiavitù) o la libertà sessuale (coercizione, sfruttamento, stupro).
E, il nostro Omar rimarrà in carcere, solo perchè nel frattempo erano state presentate altre cinque denunce di violenza sessuale. Era stato condannato nel 2008 per lo stesso reato. Uguale vicenda per Alberto Genovese il manager che durante i lussuosi festini “sesso droga e rock and roll”, nell’attico che affianca il duomo di Milano, vicino vicino alla “Madunina” stuprava le sue giovani ospiti. Anche lui condannato a 8 anni e 4 mesi ha ottenuto una riduzione della pena, ed ora il suo avvocato chiede che gli ultimi 4 anni vengano scontati in una struttura di recupero. Lui è “ redento”, a dimostrarlo il matrimonio con una donna manager di 46 anni (sic). Ovviamente ha dalla sua prestigiosi avvocati e tanti tanti soldi.Entrambi stupratori seriali in doppiopetto, giacca e cravatta.
Né mancano i lupi in jeans e smart phone, che in branco adescano le vittime per la loro iniziazione virile, cruenta e violenta. Sono i casi recenti dei minorenni di Palermo e Caivano. Efferati, durante e dopo, per i filmati fatti girare sul web, squallidi trofei di conquista.E le vittime? Ferite, contuse, annullate, subito rimosse dal senso comune e spesso
etichettate come quelle che se la vanno a cercare. Nel fatto di Caivano, l’imputato è il degrado e le famiglie sono minacciate e silenziate. Si invocano polizia e assistenti sociali, ma le bambine violentate?
Le incronguenze sociali
Sembra una recita a soggetto, dove si alternano le luci dai minori violenti al degrado morale e materiale, alle famiglia e Scuola assenti, alla pornografia dilagante, mentre le vittime restano volutamente dietro le quinte.
Niente si farà, nessuna forma di indennizzo solidale e materiale.Ci sono gli amici dei lupi, quelli delle sentenze assolutorie o minimizzanti, che di fatto avvantaggiano chi ha commesso il reato senza riguardo alcuno per chi lo ha subito. Ascoltiamo nelle aule giudiziarie parole giustificatrici quali “donna alterata dall’alcol”, “cerniera dei pantaloni strappati con facilità perché di modesta qualità”, per arrivare a sostenere che i jeans sono un indumento che richiede “una fattiva collaborazione”, e l’onere della colpa sembra addossato alla donna, che da vittima diventa oggetto di indagine.
Si capisce, essendo il reato perseguibile dietro querela, che troppe donne rinuncino a denunciare per non essere messe alla berlina, sottoposte a domande imbarazzanti quando non lesive della dignità personale.
Le incongruenze legislative
Allo stesso tempo lo stupro, un atto di sopraffazione e coercizione violenta del potere maschile sulla donna, considerata “cosa” da usare e abusare, viene spesso attenuato e quasi mai giudicato nella sua gravità.
E’ una storia che si perde nelle nebbie del tempo, dovuta al retroterra patriarcale della “cultura dello stupro” che legittima l’uso della forza nel corteggiamento perché la donna non deve concedersi liberamente, ma essere ”presa” e “posseduta”. Basti pensare anche all’iter legislativo per cambiare la violenza carnale da delitto contro la moralità pubblica e il buon costume in delitto contro la persona, punibile da 6 a 12 anni, con la legge 66/1966.
E’ un retaggio del codice fascista Rocco per il quale sin dal 1979 sono stati presentati disegni di legge di abolizione, ignorati e passati sotto silenzio. Nel 1980 c’era stata addirittura una proposta di legge di iniziativa popolare, mai arrivata in Commissione. Addirittura nel 1981 si provvedeva ad abolire il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, mentre continuava il silenzio parlamentare, per quasi altri vent’anni, prima di arrivare a ritenere punibile “chiunque che con la violenza o minaccia o abuso di autorità costringa a compiere o subire atti sessuali”.
Resta sempre il limbo del taciuto, della sofferenza non lenita dalla giustizia imperfetta e la necessità di una consapevolezza più ampia per rimuovere determinati codici di comportamento esistenti, cui la Casa delle donne, nei suoi limiti, contribuisce e contribuirà.
A cura di Ottavia Mermoz